mercoledì 19 maggio 2010

Qualche domanda di una gatta a proposito di un sedicente "centro sociale di destra"


In Romagna, un "centro sociale" è un posto con il biliardo, gli anziani che giocano a carte e la televisione accesa sul Gran Premio di Monza, tifo indiavolato per la Feràri e bicchieroni di sangiovese. In diversi altri posti, invece, un "centro sociale" è un posto qualsiasi (una scuola dismessa, uno stabile vuoto) generalmente occupato e dove si esplicano le attività e le militanze della sinistra antagonista. C'è poi in questa città, in una via intitolata a un frate bruciato un altro centro autoproclamatosi "sociale", che ultimamente mi ha un po' incuriosita anche per un divertente clone che è stato fatto del suo sito-blog e per alcuni articoli critici letti su vari altri blog (ad esempio questo). Poiché, in quanto gatta (e pure nera) sono curiosa per natura, ho deciso -visto che va molto di moda- di rivolgere qualche domanda a codesto "centro sociale di destra", lontana però sia dalla critica aprioristica, sia dalla pur divertente e irriverente goliardata. Si tratta ovviamente di domande retoriche, che non presuppongono una risposta obbligatoria; inoltre, contrariamente alla prassi, non sono neppure dieci.

Parto da un presupposto assolutamente necessario: se "Casaggì" (così si chiama tale entità) ha scelto di denominarsi "centro sociale", la specificazione "di destra" è superflua. Nella Romagna testè nominata, nessuno si è mai sognato di specificare "Centro Sociale per il gioco del Tressette e per il Tifo Ferrarista". Sull'insegna (se c'è) di nessun centro sociale antagonista sta scritto "Centro Sociale di Sinistra". Un Centro Sociale è un Centro Sociale e basta. È un centro dove si svolgono, o si dice di svolgere, attività sociali. La specificazione "di destra" è quindi, di per sé, l'ammissione di volersi rifare a modelli ed esperienze estranee alla propria storia e alla propria cultura. È la fatale attrazione che su una certa "destra" continua ad esercitare l'Avversario, la Controparte. Detto questo, la gatta Pampalea parte con le sue domandine.

1) In che cosa esattamente si esplica la "socialità" di Casaggì? Tenendo conto del presupposto, e di una denominazione ben precisa, non riesco a vedere in "Casaggì" niente che possa definirsi una militanza rivolta "al basso", capillare, che ponga e sviluppi tematiche di autentica utilità sociale. A differenza dei centri sociali antagonisti, "Casaggì" è in realtà l'emanazione delle componenti più o meno giovanili di alcune formazioni politiche che così, evidentemente, hanno cercato di "far presa" tra i giovani di una città storicamente a loro piuttosto ostile. Ciò ha generato sia un'ambiguità di fondo, sia un impasse difficilmente superabile: il proclamato ribellismo, la non conformità eccetera eccetera si scontrano con l'appartenenza a forze politiche tutt'altro che "ribelli" o "non conformi". Nei centri sociali antagonisti, le forze politiche istituzionali, anche di "sinistra" o presunta tale, sono viste comunque come parte di un sistema da combattere; nel "centro sociale di destra", al momento buono si invita a votare per Berlusconi. Da molti questa è considerata come una purissima operazione di marketing. Peraltro non ben riuscita. Una socialità autentica non è imbrattare i muri di tutta la città col proprio "logo", con croci celtiche e con chilometri di manifesti. Questo è soltanto far felici i venditori di bombolette spray ed alcune tipografie. Il problema è che, al di fuori di questo, la popolazione di questa città altro non percepisce di "Casaggì".

2) Perché "Casa"? Il termine "Casa" è assai frequente tra le formazioni associative di certa destra: si pensi ad esempio a "Casapound". C'è un problema grosso, però: un centro sociale non è una "casa". Ne è l'esatta antitesi. Una casa rimanda a qualcosa di familiare, di interno, di rinchiuso; il centro "sociale", invece, per definizione dovrebbe essere collettivo, aperto, rivolto all'esterno. Scegliere la denominazione "casa" per un "centro sociale" è una contraddizione in termini. O si è "casa", o si è "centro sociale". Ora, si dà il caso che la sede di "Casaggì" sia proprio una casa in piena regola: un palazzotto in un'angusta via di un quartiere borghese, con qualche bandiera a penzoloni da una finestra. Per il resto, invece che "Casaggì" potrebbe essere tranquillamente (e, probabilmente, prima lo era) casa Pinzauti, casa Francalanci o casa Torselli. Si confronti tutto ciò con l'aspetto, con l'ubicazione e con la disposizione topografica di un CPA, di un Next Emerson, di un K100. In quella stradina dedicata al frate bruciato tutto è in ordine: neanche una scritta sul muro (quelle, casomai, le fanno su tutti gli altri muri della città; ivi comprese quelle, stupidissime e poi cancellate, sulla facciata del vicino consolato Cinese. Si immagini la considerazione che un'istituzione della Repubblica Popolare Cinese deve avere di due ragazzotti che nottetempo vanno a scrivere "Cina stupida" su un muro, pensando magari d'aver fatto chissà quale prodezza). Tutto tranquillo. Tutti, giustappunto, chiusi in casa. D'altronde, dove dovrebbero starsene all'esterno? La scelta di quella strada, per un sedicente "centro sociale", è assolutamente disgraziata. Non ci passa nessuno. Non c'è un posto dove stare fuori. Non c'è un parcheggio nemmeno a cercarlo per due ore. Se qualcuno volesse fare, in quella strada, un chiassoso ed allegro assembramento futurista, non-conforme, ribelle ecc., non ce ne sarebbe proprio il posto fisico a meno di non debordare sul viale Don Minzoni e provocare un ingorgo Ovonda-style. La scelta di quel posto, quindi, denota in realtà la natura assolutamente non sociale di quel luogo (una casa più o meno grande dove riunirsi, un luogo chiuso in una strada angusta, un quartiere inadatto). La denominazione di "centro sociale" è quindi, detto in parole povere, uno scimmiottamento goffo, irreale e menzognero di ben altre realtà. Fosse stato soltanto "Casa" (-ggì, Casa Codreanu, Casa Ciok, quello che si vuole) non ci sarebbe stato niente da dire; così è una presa per il culo agli altri e, forse, anche a se stessi e a chi si avvicina a quel luogo.

3) Come intende "Casaggì" giustificare le proprie continue ambiguità? Alcune sono state messe perfettamente in luce da articoli come questo o quest'altro? Qui non si parla di "ideologie" più o meno vaghe, si parla di gravissime e pesantissime contraddizioni. "Casaggì" passa con la massima indifferenza dall'eroico martirio di Saddam Hussein al filosionismo più pedestre. Dalla "Palestina una, libera e indipendente" ai gazebo con le bandiere israeliane. Dal "ribellismo" al sostegno incondizionato ed agli appelli di voto per John Cocks il Palloniere. Il bello è che il sito-blog di "Casaggì" si definisce "rivista web identitaria"; ma, in definitiva, dove sta la loro "identità"? Non si è, e non si può essere "centro sociale" trastullandosi tra finti "ribellismi" e l'obbedienza al sor padrone che paga l'affitto della Casa. Alla fin fine, questa cosa è un boomerang. La gente, ed anche chi magari simpatizzerebbe per te, si accorge che non sono altro che giochetti privi di costrutto e di sincerità; ed allora nascono i cloni a presa di culo. Cominci ad essere oggetto di barzellette, e non di considerazione politica anche da parte degli avversari. Cominci ad essere un buffo circolino di amiconi e ragazzotte che una volta all'anno, in febbraio, fanno una giratina nel quartiere fiaccole alla mano, stile Madonna di Lourdes. E, così facendo, non solo non sei affatto un "centro sociale", ma rischi anche di non essere più nemmeno una "casa". Diventi solo un blob di slogan, di muri impiastricciati e di contorsionismi che ti lasciano annodato.

Bene, in fondo le domande erano soltanto tre. Forse ce ne sarebbero molte altre, ma la cosa diventerebbe troppo lunga. Ai "Casaggini" raccomanderei però, da vecchia gatta in campana, una cosa molto semplice: quella di provare a fare un'estrema chiarezza in se stessi, ed a porsi in reale contrapposizione critica anche e soprattutto con la loro parte. Così si fa nei centri sociali, quelli veri. Non si può essere contro il sistema a parole, e poi esserci invece legati a doppio filo e dentro fino al collo. Ma, forse, a questo modo non avrebbero più chi paga loro il palazzotto. Non avrebbero più un posto dove stare, sarebbero senza Casa e toccherebbe loro occupare un capannone. Capannoneggì.