martedì 23 marzo 2010

Pinco Pallino


Proprio l'altro giorno, assieme al mio caro amico di pelo Niccolò Machiavelli (detto, curiosamente, El Perro), stavamo guardando la televisione a casa del nostro amico Sussi (abbastanza peloso pure lui, seppure umano). Non che lo facciamo spesso, nessuno dei tre; ma, a volte, specie sull'ora di pranzo o di cena, succede. A un certo punto, eccoti un gigantesco reportage di un telegiornale sugli ottant'anni di tale Gualtiero Marchesi, di professione cuoco (però si dice scèff), trattato alla stregua di un immortale; e mentre quello lì è attorniato dai collaboratori del suo ristorantone di superlusso (travestito ovviamente da cascina di campagna) e pontifica incassando iperboli che non si sarebbero sognati nemmeno Alessandro Magno o Napoleone (cosa che, devo dire, mi capita abbastanza spesso di sentire anche a proposito di alcuni sarti oppure di certi buffi giovanotti che inseguono un pallone su un prato), scorrono sullo schermo enormi piatti semivuoti, riempiti solo al centro di minime quantità di riso ricoperto da una lamina d'oro (?!?!) oppure di pezzetti d'altra roba. Esteticamente molto belli, come no; ma io, Nicco e anche Sussi ci siamo guardati negli occhi, tutti e tre con la stessa domanda inespressa: "Ma icché si mangia?...."

Sussi ha quindi, assai opportunamente, spento la scatoletta dell'alienazione mentale, il faccione del gran cuoco esteta è stato inghiottito dall'oscuro assieme alle sue opere d'arte (che, probabilmente, devono costare appunto quanto la Gioconda di Leonardo, sempre che poi il loro gusto effettivo, al pari del prezzo, non provochi invece l'Urlo di Munch).


Al che, Sussi, con una vera e propria schwer gefasste Entschluss, ci ha guardati gravemente e ci ha detto: Gnamo gatti, si va a sgranare da Pinco Pallino! Ne sono susseguiti, da parte di noialtri felini, miagolii di approvazione e di letizia. Siamo stati caricati in macchina (ecché, non l'avete mai vista una Fiesta del 118 con due gatti a bordo?) ed ivi condotti, all'angolo fra due riposte stradine vicino al policlinico di Careggi. Da Pinco Pallino, appunto.

Pinco Pallino è l'antitesi di Gualtiero Marchesi e dei suoi striminziti risottini dorati. Pinco Pallino ti accoglie con cartellacci scritti col pennarello, che dicono che si mangia ogni cosa a otto euri. Non al piatto: otto euri tutto il pranzo, acqua pane e quartino di vino rosso inclusi. Pinco Pallino è la cucina di casa tua, e non intendo questa cosa nemmeno come "pubblicità": è come fare réclame alla mamma o alla zia. Peraltro, il padrone non ha l'aria né di una mamma, né di una zia: è un ragazzo letteralmente soffocato dai suoi lunghissimi capelli (ghghghghgh!), un casinista appassionato dei suoi spaghetti alla majalona, dei polpettoni, delle braciole ai ferri e dei funghi trifolati. A volte si infila la maschera di Berlusconi che tiene rigorosamente dietro al banco, maglietta nera stile calcio con sulla schiena "8€ - Pinco Pallino", e aggiunge ancor più bordello a quello che già normalmente c'è nel locale. Tavolacci, clientela costituita al 90% da operai e altri lavoratori pranzanti (e la quantità di pantaloni sporchi di vernice lo testimonia), un paio di graziose ragazzotte di banlieue che servono, la cucina aperta, il cesso nel cortile, vino e allegria, e, soprattutto, gran piattate di roba bòna a un prezzo che in centro non ci compreresti nemmeno uno di quei gustosissimi panini all'iguanodonte che spediscono i turisti al vicino pronto soccorso.

Andare in un posto del genere, dove anche noialtri gatti & gattacci siamo i benvenuti (sempre che, naturalmente, non veniamo poi serviti come coniglio...), è un piacere immane. Cittadini del mondo. Accenti locali, albanesi, maghrebini; ma senza nemmeno un filo di "etnico". È un posto per gente che lavora, e si mangia tutti la stessa roba. Tutti uguali. E, non vorrei essere ripetitiva, si mangia. Non si fanno gli assaggini. Non ci sono le "chicche". Chi vuole fumare fuori, si accomoda a sedere sullo scalino della soglia. Rumori di spiattìo, di sforchettìo, di sganascìo. E poi, qualche volta, vuoi mettere essere serviti dall'Unto di Arcore in persona, qui ritratto assai in topic accanto a una scatola di Orzo Pupo (a quando, mi chiedo, l'Orzo Emanuele Filiberto?)!

Insomma, come dire, tu esci -umano o gatto che tu sia- da Pinco Pallino e ci hai un bel po' di cose che ti fanno star bene. Prima di tutto sei sazio di roba cucinata bene, ché il mangiare bene si vede prima da come ti fanno du' spaghetti al pomodoro o una fetta di carne (e non dai ghirigori "artistici" messi in pentola). Poi non hai speso un cazzo di nulla. Sei stato bene tirando battute e risate con gente che, magari, lì dentro dimentica per tre quarti d'ora che deve tornare in cima a un ponteggio per mille euri al mese (se va bene). Succede poi che scoppia la primavera, ché a noialtri gatti il calduccio ci piace e non soffriamo di allergie né fisiche e né esistenziali, e allora quei tre quarti d'ora ti fanno andare avanti con mezzo milligrammo di contentezza in più; e la contentezza è merce rara in mezzo a questi tempi torvi. Rara e quasi rivoluzionaria.

Avrò esagerato? Boh! Il fatto gli è che il sor Pinco Pallino, che alle pareti del suo locale (in vari articoli di riviste e giornali) spiega tutta la sua filosofia alla portata de' pòeri, è andato nella giusta direzione. Tutto qui. Provate a andarci anche voi, verso mezzogiorno. E se poi 'un vi garba, i casi son due. O vi garba il risottino fogliadoro nella cascina, o siete bischeri. In entrambi i casi, pazienza: noialtri si starà più larghi.

martedì 16 marzo 2010

La maestà del popolo


Brutto inverno, cari miei. Massimamente per una gatta, nera o di qualsiasi altro colore. Noialtri gatti, che amiamo il sole, non saremmo fatti per inverni come questo che, fortunatamente e con accidenti vari, sta finendo; così prestiamo la nostra voce ad altri accidenti, spesso umani, che distolgono da quel che si vorrebbe fare. Ma tant'è, e quel che fatto è fatto e consegnato; intanto, timidamente, rispunta il sole. E allora si torna a fare qualche giro per la città, che poi sarebbe quel che è qui dichiarato: una gatta nera a giro per la città. E me ne sono andata a fare un giro a San Salvi.

Prima o poi se ne impossesserano, di San Salvi, i signori degli affari loschi e delle politiche scure. Se lo prenderanno, ci faranno case e palazzi, faranno finta di ristrutturare e di salvare dal degrado e festa finita. Già i progetti, come tutti sanno, ci sono. Tutti lo sanno e girano la testa dall'altra parte; e San Salvi può opporre ben poco, a parte i suoi alberi, le sue ville mezze diroccate, la sua storia di dolore e la sua socialità. C'è di tutto, ora, in quell'enorme area che fu un manicomio: centri diurni, strutture pubbliche, gli anarchici sotto costante minaccia di sgombero, il Social Bar, il teatro con quelli della Bilancia e i cantautori sotterranei, persino un giardino di educazione stradale costantemente deserto. E i viali, e la ferrovia che passa a lato, e un dolente grido di restituzione alle mille e mille attività di tutti e per tutti che un'area del genere imporrebbe ad una città che si dice civile. Ma se lo piglieranno lorsignori, con le loro galere e i loro avalli, coi loro beneplaciti e con i loro giornali che spargeranno, come sempre, menzogne. Ha un destino già segnato, San Salvi. Un giorno arriveranno le ruspe. Quel che farà loro comodo sarà salvato, e il resto verrà distrutto. Spunterà la parola prestigio. Spunteranno i soliti nomi.

A San Salvi, tra i suoi edifici diroccati, ne resiste uno sul quale, tanti e tanti anni fa, si volle dipingere un mural in stile "andino", con una grafica che ricordava quella dei dischi DICAP della Nueva Canción Chilena. C'era stato, da poco, il golpe militare di Pinochet. Gli Inti-Illimani, cui ancora non era stata consegnata ufficialmente la patente di noiosi per antonomasia, riempivano la Grande Piazza. Settantatré, settantaquattro, settantacinque. Il diciotto aprile 1975 ammazzarono un ragazzo, comunista, durante una manifestazione contro la repressione: si chiamava Rodolfo Boschi. Tempi in cui, nel mural andino dipinto in mezzo a quello che era ancora un manicomio e un lager, si dichiarava una brigata a nome di quel ragazzo morto.


Tempi in cui un certo giorno di primavera aveva un Valore, in tutte le accezioni di questo termine che sono state sconciate oggigiorno. Tempi in cui le parole del Gran Poeta, che del colpo di mano fascista in un lontano paese era stato fra le prime vittime, venivano non soltanto ricordate, ma associate a quel giorno d'Aprile e a un giovane ucciso per mano poliziotta. Le aveva scritte, il Grande Poeta cileno, quando nel primo dopoguerra era arrivato in questa città ed era stato ricevuto da un sindaco operaio, Mario Fabiani. Y cuando en el Palacio Viejo, bello como un ágave de piedra, yo subí los escalones consumados, pasé por los antiguos cuartos y vino darme el bienvenido un obrero, jefe de la Ciudad, del viejo río, de las casas talladas como en piedra de luna, no me surprendí: la maestad del Pueblo gobernaba. Quel poeta si chiamava Pablo Neruda, e parlava di questa città con le più belle parole che le siano forse mai state dedicate. Talmente belle, e vere, che sono state del tutto dimenticate; tranne che su quel mural, su quell'affresco popolare che si sta sgretolando sui muri di una casa rovinata in un luogo che scomparirà presto.


Non terminò di parlare, il Poeta. Disse ancora. Ed è bene leggerle queste parole finché resisteranno. È bene darne conto e tramandarle, anche se per mano d'una gatta girovaga e nera.

Ma dietro non c'era l'aureola del passato: il suo splendore era la semplicità del presente. Come un uomo, dal telaio o dall'aratro, dalla fabbrica oscura, salì le scale con il suo popolo e nel suo Palazzo Vecchio, senza spada, il popolo, lo stesso che valicò con me il freddo delle Cordigliere delle Ande, stava là. Per questo credo ogni notte nel giorno, e quando ho sete credo nell'acqua, perché credo nell'uomo. Credo che stiamo salendo fino all'ultimo gradino. Da lì vedremo la verità spartita, la semplicità restaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.


Avete letto e compreso quali parole riusciva ad ispirare ad un Poeta questa città? Avete letto della semplicità, della speranza e del pane e vino per tutti? Sta tutto scritto su dei muri sbrecciati, fatiscenti. E non si tratterebbe neppure di salvare quei muri, ma quelle parole. Si tratterebbe di riappropriarsene e di farne presente e avvenire. Si tratterebbe di un sacco di cose. Intanto battono le grancasse del degrado, e quando battono non è mai perché sia dato pane e vino a tutti. Battono sempre affinché non il pane e il vino, ma il denaro, venga accumulato nelle tasche di pochi. E allora fatevi gatti anche voi. Sgattaiolate, senza essere visti, dentro San Salvi. Andate a vedere quei muri e a guardare quell'affresco. Leggete quelle parole. La maestà del popolo ha smesso di governare da tempo. Ma quei muri resistono e dicono ancora. Sta a chi legge, allora, decidere.


mercoledì 3 marzo 2010

My sweet Lady Pamp



My sweet Lady Jane
When I see you again
Your servant am I
And will humbly remain

Just heed this plea my love
On bended knees my love
I pledge myself to Lady Jane

My dear Lady Anne
I've done what I can
I must take my leave
For promised I am

This play is run my love
Your time has come my love
I've pledged my troth to Lady Jane

Oh my sweet Marie
I wait at your ease
The sands have run out
For your lady and me

Wedlock is nigh my love
Her station's right my love
Life is secure with Lady Jane

Questa volta, dopo aver ottemperato agli strambi favori del mio amico, voglio prendermi una canzone "mia". È una canzone felina, questa. Ha le stesse movenze, e gli stessi misteri. Di che cosa parlerà? Di qualche moglie di un re, o di qualche recondito significato che non si può sapere? Com'è che i Rolling Stones, si misero a comporre e cantare quella che appare come una squisita canzone di epoca elisabettiana, con Brian Jones al dulcimer? Non lo so. Ma è una delle canzoni che più mi canto in certe nottate, quando me ne vado sola e nera a perdermi in mondi che non vi potete immaginare. Vs. gatta Pampalea.