martedì 16 marzo 2010

La maestà del popolo


Brutto inverno, cari miei. Massimamente per una gatta, nera o di qualsiasi altro colore. Noialtri gatti, che amiamo il sole, non saremmo fatti per inverni come questo che, fortunatamente e con accidenti vari, sta finendo; così prestiamo la nostra voce ad altri accidenti, spesso umani, che distolgono da quel che si vorrebbe fare. Ma tant'è, e quel che fatto è fatto e consegnato; intanto, timidamente, rispunta il sole. E allora si torna a fare qualche giro per la città, che poi sarebbe quel che è qui dichiarato: una gatta nera a giro per la città. E me ne sono andata a fare un giro a San Salvi.

Prima o poi se ne impossesserano, di San Salvi, i signori degli affari loschi e delle politiche scure. Se lo prenderanno, ci faranno case e palazzi, faranno finta di ristrutturare e di salvare dal degrado e festa finita. Già i progetti, come tutti sanno, ci sono. Tutti lo sanno e girano la testa dall'altra parte; e San Salvi può opporre ben poco, a parte i suoi alberi, le sue ville mezze diroccate, la sua storia di dolore e la sua socialità. C'è di tutto, ora, in quell'enorme area che fu un manicomio: centri diurni, strutture pubbliche, gli anarchici sotto costante minaccia di sgombero, il Social Bar, il teatro con quelli della Bilancia e i cantautori sotterranei, persino un giardino di educazione stradale costantemente deserto. E i viali, e la ferrovia che passa a lato, e un dolente grido di restituzione alle mille e mille attività di tutti e per tutti che un'area del genere imporrebbe ad una città che si dice civile. Ma se lo piglieranno lorsignori, con le loro galere e i loro avalli, coi loro beneplaciti e con i loro giornali che spargeranno, come sempre, menzogne. Ha un destino già segnato, San Salvi. Un giorno arriveranno le ruspe. Quel che farà loro comodo sarà salvato, e il resto verrà distrutto. Spunterà la parola prestigio. Spunteranno i soliti nomi.

A San Salvi, tra i suoi edifici diroccati, ne resiste uno sul quale, tanti e tanti anni fa, si volle dipingere un mural in stile "andino", con una grafica che ricordava quella dei dischi DICAP della Nueva Canción Chilena. C'era stato, da poco, il golpe militare di Pinochet. Gli Inti-Illimani, cui ancora non era stata consegnata ufficialmente la patente di noiosi per antonomasia, riempivano la Grande Piazza. Settantatré, settantaquattro, settantacinque. Il diciotto aprile 1975 ammazzarono un ragazzo, comunista, durante una manifestazione contro la repressione: si chiamava Rodolfo Boschi. Tempi in cui, nel mural andino dipinto in mezzo a quello che era ancora un manicomio e un lager, si dichiarava una brigata a nome di quel ragazzo morto.


Tempi in cui un certo giorno di primavera aveva un Valore, in tutte le accezioni di questo termine che sono state sconciate oggigiorno. Tempi in cui le parole del Gran Poeta, che del colpo di mano fascista in un lontano paese era stato fra le prime vittime, venivano non soltanto ricordate, ma associate a quel giorno d'Aprile e a un giovane ucciso per mano poliziotta. Le aveva scritte, il Grande Poeta cileno, quando nel primo dopoguerra era arrivato in questa città ed era stato ricevuto da un sindaco operaio, Mario Fabiani. Y cuando en el Palacio Viejo, bello como un ágave de piedra, yo subí los escalones consumados, pasé por los antiguos cuartos y vino darme el bienvenido un obrero, jefe de la Ciudad, del viejo río, de las casas talladas como en piedra de luna, no me surprendí: la maestad del Pueblo gobernaba. Quel poeta si chiamava Pablo Neruda, e parlava di questa città con le più belle parole che le siano forse mai state dedicate. Talmente belle, e vere, che sono state del tutto dimenticate; tranne che su quel mural, su quell'affresco popolare che si sta sgretolando sui muri di una casa rovinata in un luogo che scomparirà presto.


Non terminò di parlare, il Poeta. Disse ancora. Ed è bene leggerle queste parole finché resisteranno. È bene darne conto e tramandarle, anche se per mano d'una gatta girovaga e nera.

Ma dietro non c'era l'aureola del passato: il suo splendore era la semplicità del presente. Come un uomo, dal telaio o dall'aratro, dalla fabbrica oscura, salì le scale con il suo popolo e nel suo Palazzo Vecchio, senza spada, il popolo, lo stesso che valicò con me il freddo delle Cordigliere delle Ande, stava là. Per questo credo ogni notte nel giorno, e quando ho sete credo nell'acqua, perché credo nell'uomo. Credo che stiamo salendo fino all'ultimo gradino. Da lì vedremo la verità spartita, la semplicità restaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.


Avete letto e compreso quali parole riusciva ad ispirare ad un Poeta questa città? Avete letto della semplicità, della speranza e del pane e vino per tutti? Sta tutto scritto su dei muri sbrecciati, fatiscenti. E non si tratterebbe neppure di salvare quei muri, ma quelle parole. Si tratterebbe di riappropriarsene e di farne presente e avvenire. Si tratterebbe di un sacco di cose. Intanto battono le grancasse del degrado, e quando battono non è mai perché sia dato pane e vino a tutti. Battono sempre affinché non il pane e il vino, ma il denaro, venga accumulato nelle tasche di pochi. E allora fatevi gatti anche voi. Sgattaiolate, senza essere visti, dentro San Salvi. Andate a vedere quei muri e a guardare quell'affresco. Leggete quelle parole. La maestà del popolo ha smesso di governare da tempo. Ma quei muri resistono e dicono ancora. Sta a chi legge, allora, decidere.