Approfittando della domenica d'ottobre relativamente mite (anche se stanotte ha fatto un freddo CANE -madonna, ma che parole mi tocca dire!), ho deciso oggi d'andarmene a fare una bella sgattajolata alla ricerca non soltanto di storie da raccontare, ma anche -why not- d'un paio di bei topi; e quale miglior posto, sia per la sgattajolata che per i topi, d'un bel parco in riva addirittura a due fiumi?
Questi due fiumi avranno una parte consistente in questa storia, almeno da un punto di vista storico. In fondo al parco, infatti, si trova la loro confluenza. Un gentile signore su una panchina (ce ne sono ancora, di signori gentili, anche se c'è da dire che in molti casi sono molto più gentili coi gatti che coi rumeni), indicandomi un bizzarro tempietto con l'effigie di un umano col turbante, mi ha raccontato la storia di quel luogo.
Sembra che moltissimi anni fa, attorno al 1870, un giovane maharajah indiano, tale Rajaram Chuttraputthi, trovandosi in questa città di ritorno dall'Inghilterra (e diretto nel suo paese, un viaggetto che all'epoca non doveva essere affatto breve), fu sorpreso da Sorella Morte in un albergo del centro; aveva, poveraccio, soltanto 21 anni (che per noialtri gatti sarebbe un'età più che ragguardevole, ma che per gli umani appartiene invece alla piena giovinezza). Poiché doveva essere seppellito alla svelta, e la sua religione imponeva che la sua tomba dovesse sorgere alla confluenza di due fiumi, fu individuato questo luogo. Insomma, come dire, proprio non ricordava la confluenza tra il Gange e il Brahmaputra (sì, per tutti i croccantini, lo so che il Gange e il Brahmaputra non fanno confluenza, ma era solo per dire!); però lo sfortunato maharajah dovette contentarsi, e in fondo sai che diavolo gliene fregava visto che era morto stecchito.
Alla presenza del console di Sua Maestà Britannica, (e qui ho un moto di estremo rispetto, visto il ben noto e storico amore che i britannici tutti hanno da sempre nei confronti dei felini domestici), fu approntata una pira e la salma del maharajah fu arsa; sul luogo fu poi eretto un tempietto, con tanto di lapidi in italiano, inglese, hindi e sanscrito, che ricordava l'avvenimento. Un tempietto di uno stile talmente insolito per questa città, che da allora il luogo intero è noto come “L'Indiano”. Piazzale dell'Indiano si chiama lo spazio prospiciente; Ponte dell'Indiano si chiama il viadotto strallato costruito alle sue spalle una ventina d'anni fa, e Palazzina dell'Indiano si chiama la costruzione che vedete raffigurata nella fotografia gattigitale allegata a questo post.
Qui il racconto del gentile signore sulla panchina si è interrotto; anche perché è dovuto andare via, chiamato da due pericolosissimi ragazzini (i suoi nipotini?) che mi avevano adocchiata con fare decisamente sospetto. Curiosa come sono, però, mi sono fermata a guardare la palazzina, completamente chiusa (anzi no: sprangata), con segni di un recente & accurato restauro andato poi alla malora per totale disuso, con l'intonaco oramai scrostato alle pareti, tristi bandiere che sventolano nell'indifferenza e circondata da siepi abbastanza alte e da una recinzione allucchettata. Chiedendo un po' ancora in giro, aiutata dai miei due amici Sussi e Biribissi che mi avevano da poco raggiunta con la macchina sfidando temerari una mezza tonnellata di divieti di accesso, sono riuscita a saperne qualcosina di più.
Dovete sapere, miei lettori sia pelosi che glabri, che quella palazzina di proprietà comunale, edificata non molto tempo dopo il tempietto per usi che purtroppo mi rimangono ignoti, verso il 1987, in stato di completo abbandono se non proprio di avanzata rovina, era stata occupata da alcuni giovanotti che vi avevano messo su un centro sociale. E siccome si trovava all'Indiano, anche quel centro sociale si chiamò “L'Indiano”.
Può darsi però che voialtri lettori non abbiate ben presente che cosa sia, un centro sociale. Un centro sociale, nella comune accezione del termine, resa ancor più comune dal modo in cui generalmente ne parlano i media di questa ed altre città, è un posto dove si riuniscono gli anarchici, i comunisti, i sovversivi, i negri, i finocchi, i terroristi, gli zìngari eccetera eccetera. Un centro sociale è un luogo da far visitare spesso all'Ordine Costituito, un posto i cui pericolosi frequentatori -anche i gatti, eh!- devono essere tenuti sotto controllo e, soprattutto, qualcosa da sgomberare e chiudere con ogni mezzo possibile. A tale riguardo, numerose forze cosiddette politiche fanno spesso della chiusura dei centri sociali un loro “cavallo di battaglia”, novelli Catoni che terminano i loro discorsi non con il classico Delenda Karthago (ché il loro latino si ferma generalmente a "semper ricordare, controventum non pisciare"), bensì con un più rude “bisogna chiudere il centro sociale X”.
Per sgomberare un centro sociale esistono svariati mezzi: in questa città, generalmente, il metodo utilizzato è quello di prendere l'area e l'edificio dove si è impiantato, previa occupazione, il centro sociale, e di destinare il tutto ad usi di superiore interesse. Non importa se, magari per cinquant'anni, tali aree e tali edifici sono stati tenuti in condizioni pietose -anzi, per usare un espressione molto alla moda, di totale degrado-, e senza farne il benché minimo uso quando ancora non vi era stata occupazione alcuna; arriva il centro sociale e, all'improvviso, gli amministratori e le forze politiche scoprono che quel luogo è assolutamente necessario per impiantarvi cose importantissime come il palazzotto “prestigioso”, l'ipermercato (come se di grande distribuzione non ve ne fosse abbastanza), l'edilizia residenziale (con le migliaia di appartamenti sfitti che esistono). Si procede quindi allo sgombero forzato con gran dispiegamento di tutori dell'ordine in armi, compiendo magari diversi arresti con le imputazioni più folkloristiche, e ovviamente con la più grande soddisfazione da parte delle forze democràtiche di ogni orientamento, ben supportate dai loro giornaletti e anche dall'opinione pubblica perfettamente manipolata e atrofizzata, la quale gioisce pecorecciamente senza sapere nemmeno che cosa sia, un centro sociale, e soprattutto senza nemmeno essersi mai premurata di avervi mai messo piede una volta che sia una.
Così accadde anche per il centro sociale dell'Indiano. Non importò assolutamente che vi si tenessero dibattiti, concerti, iniziative di ogni genere; non importò che l'edificio, senza gravare di un soldo sul bilancio comunale, fosse stato un po' riattato e che avesse cominciato a svolgere realmente un servizio per la popolazione, fungendo magari da punto di aggregazione per un discreto numero di giovani che, invece di dedicarsi al nulla e al sottovuoto spinto che piace tanto al potere, si dedicavano a forme di partecipazione e di critica radicale. Nulla da fare. Un giorno di fine millennio arrivò l'ordinanza definitiva e la palazzina fu sgomberata a forza. Al suo posto doveva sorgere un decisivo punto di riqualificazione del parco fluviale: la sede, nientemeno, che del Posto Fisso del Corpo Forestale dello Stato, con il suo Reparto a Cavallo e addirittura l'Aula Didattica Ambientale! Pare che la proposta di assegnazione della Palazzina al Corpo Forestale fosse stata caldeggiata da un partito chiamato "Alleanza Nazionale"; chissà, forse memore del decisivo contributo che i Forestali si erano messi a dare al famoso "Golpe Borghese" dell'8 dicembre 1970.
Che meraviglia: finalmente scacciati gli occupanti, lo Stato si riappropriava del posto sistemandovi gli sceriffi di Settingham e i guardiani della foresta di Isolottwood. Gli sgangherati Robin Hood del centro sociale autogestito se ne andassero da qualche altra parte; e così fu. Il risultato lo avete sotto gli occhi. La palazzina, restaurata coi soldi della popolazione della città, costantemente e disperatamente chiusa e inutilizzata. Il reparto a cavallo? Gli unici cavalli che mi è stato dato di vedere in zona, da lontano, sono quelli del vicino ippodromo. L'aula didattica ambientale? Intanto, invece di fare la didattica (che non fanno), si dedicassero a cose un po' meno pompose come dare una potatina alle siepi o ripulire il merdajo che c'è dietro la palazzina; ma, del resto, tutta codesta augusta dicitura viene recata da un cartello plastificato alla bell'e meglio, appiccicato con lo scotch. Sì, davvero un utilissimo uso ne è stato fatto; e si aggiunga che, in realtà, da quelle parti ci vado spesso, e mai che una volta lo abbia trovato aperto. Chi mai ci porteranno a fare la didattica ambientale? E i cavalli? I loro fantasmi vagano forse nella desolazione di quel luogo, tornato rassicurantemente spettrale la notte quando, ai tempi dell'esecrato centro sociale, risuonava di musica, di risate e di vita? Perché questo hanno fatto, come sempre: hanno eliminato la vita per sostituirla con le tenebre istituzionali. Niente più Indiani; ora ci sono i Forestali Metropolitani, presenza insostituibile in questa boscosa città dove vagano liberi i furetti ed agl'incroci si formano educate code di automobilisti che lasciano passare daini e caprioli allo stato brado.
Non mi hanno detto come abbia preso tutto questo il maharajah del tempietto. Qualcuno mi ha detto che era contento quando c'era il centro sociale, si divertiva, e vorrei vedere visto che aveva ventun anni! Magari, chissà, sobillato da quei sovversivi avrà pure cominciato a prendere coscienza, a volersi staccare dall'impero coloniale britannico, persino a finanziare qualche embrione di guerriglia. Ora gli è toccato tornarsene a cercare di dormire il suo eterno sonno nel buio, alla confluenza tra due fogne, sovrastato dal rombo continuo del traffico motorizzato del ponte che gli hanno costruito sul capo. Qualche risata, ma amara, tornerà forse a farsela quando la palazzina cadrà nuovamente a pezzi. Miao!
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