mercoledì 31 agosto 2011

Il nazzifascismo e l'accademia

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Già la conosceva, l'amico Sussi, questa lapide; e già ci aveva fatto alcuni suoi ragionamenti; ma siccome la sottoscritta Pampalea non ha certo rinunciato a farsi i suoi giri per la città (fregiandosi della qualifica di reporter felina metropolitana, da lei stessa appositamente creata per lei stessa), vi si è voluta recare di persona per fotografarla; tanto più che oggi è proprio il 31 agosto, vale a dire il sessantaquattresimo anniversario della sua apposizione su un muro qualsiasi dell'antica via delle Panche.

Antica sí, ma qui non si è affatto nel centro storico; anzi, se n'è ben lontani (almeno su scala cittadina). Un quartiere suburbano, le Panche, nato contadino lungo una strada che menava alla piana e dove le distanze dalla città si misuravano in miglia. E così, come altrove, ecco prima Quarto, poi Quinto (Quinto Basso e Quinto Alto), Sesto che a sua volta s'è fatta città, la Badia a Settimo...la cosa piuttosto curiosa è che -dovunque- la miliarità incomincia da Quarto. Non c'è mai, nelle città italiane, un "Terzo", un "Secondo" e men che mai un "Primo". Ma forse era perché a quattro miglia dalla città si era oramai veramente nel contado; prima non ne valeva la pena, di contare.

La città, naturalmente, si è mangiata tutto; eppure, anche oggi, quei posti hanno una loro fisionomia ancora riconoscibile. Le case vecchissime a terratetto, i cortili (anzi: le corti), a sinistra le contrade che vanno a loro volta al piano, mentre a destra quelle che salgono su in collina, alle ville storiche. Qualcuno forse non ci crederebbe, ma la famosa Accademia della Crusca, l'istituzione che da secoli veglia inultilmente sulla purezza e sulla correttezza della lingua italiana, si trova lí a due passi e mezzo. Poco tempo fa, il piazzale prativo che l'antistà, alla fine d'un viale alberato, è stato intitolato alle Lingue d'Europa. Quando me ne sono accorto, mi è scappata una specie di sorriso.

Tra la guerra e il fumo esiste una decisa somiglianza, senza tener conto che di fumo, la guerra, ne produce parecchio. S'infilano dovunque, tutt'e due. Immaginarsi la guerra alle Panche, in un tempo che sta cominciando forse ad esser lontano per una vita umana, ma che non è nulla in termini di Storia, può essere forse difficile; sparano in via dell'Osservatorio, si ammazzano in via della Querciola, i briganti neri rastrellano in via del Sodo, i partigiani scendon giù da Cercìna. Eppure, quando la lapide del nazzifascismo è stata sistemata sul muro di via delle Panche, un trentuno d'agosto di sessantaquattro anni fa, immaginarselo era facilissimo. Cose di due o tre anni prima. Cose che avevan sotto gli occhi anche i bimbi piccoli.

Cose di quando i nazzifascisti non erano tre o quattro buffoncelli che giocherellano a appiccicare manifestini sui muri; quelli sparavano, ammazzavano, rastrellavano, consegnavano, torturavano. Come il fumo, o come l'acqua di un'alluvione -tanto per rimanere a cose familiari per questa città; nessun risparmio. Si contavano i morti, i feriti, i deportati; e, in mezzo a tutto questo, c'era persino chi sperava -a torto o a ragione- nel famoso paese migliore.

La gente che abitava in quei quartieri non aveva, probabilmente, una grande istruzione. Si doveva andare a lavorare da ragazzi. Nel frattempo, a pochissima distanza, gli Accademici si facevano le loro cicalate e lavoravano al gran dizionario; il quale dà l'occasione per far presente che la cosiddetta ortografia altro non è che una convenzione malfatta. A sentir l'ortografia, scrivere dizzionario, con due zeta, è un grave errore; però la zeta si pronuncia doppia. Ci avete mai fatto caso? Si scrive inflazione, condizione, Ipazia ma si pronuncia in realtà inflazzione, condizzione, Ipazzia. Quando dicono che l'italiano "si legge come si scrive", è una baggianata bella e buona; certo, non è fortunatamente ai livelli del gaelico irlandese (dove tutto si legge come non si scrive), dell'inglese o del francese; ma di ortografie veramente "fonetiche" non ne esistono da nessuna parte. E c'erano la guerra, e i nazzifascisti (sí, con due zeta), e la sventura, e la morte.

Non era ignoranza, quella. Era scrivere le cose come si pronunciano. Da un angolo sperduto della periferia d'una città, in mezzo ai lutti e alle distruzioni (pronuncia: distruzzioni), qualcuno pensò di lanciare una doppia zeta al mondo. Senza nomi, ché pure di caduti ce ne dovettero essere in quelle strade; una doppia zeta alla memoria di tutti. Forse, allora, aveva ancora un senso quando si parlava di popolo, perché il popolo si era fatto carico della lotta e della memoria di tutti. Esprimeva tutto ciò, in barba agli accademici, nella sua lingua; in quella dei fucili e degli osti, in quella della fabbrica e della montagna, in quella delle scarpe rotte e del ciabattino, in quella delle donne in fila alla fontana sotto le bombe e del fazzoletto rosso al collo che aveva tutto il diritto a quel colore, perché presto sarebbe potuto essere quello del sangue che sgorgava.

In quella lapide c'è tutto quel che non vuole morire. L'anno che verrà, invece di celebrare assieme a sindaci e arcivescovi emeriti, sarebbe bene che gli abitanti di questa città si radunassero sotto a quella lapide, recando magari qualcosa con una doppia zeta. Come ricorda un vecchio e bel film, la zeta non piace ai fascisti e ai nazzisti; una dittatura militare, sembra, arrivò a proibirne l'uso. Anticamente, nella lingua di quel paese, "Z" equivaleva a zei, "vive". Con due zete, la memoria vivrà due volte. Una per allora, e una per quest'oggi. E se, magari, qualche accademico o pedante s'azzardasse a dir qualcosa, giù carcincùlo; si dice così, con un fenomeno che si chiama rotacismo.