giovedì 3 dicembre 2009

Via del Campo e via del Campuccio


Forse non ve lo immaginereste mai, ma durante i miei miagolanti giri assieme ai miei due amici Sussi e Biribissi ho una vera e propria passione per le lapidi che, in un'antichissima città come questa, sono ovviamente a migliaia. In questo, andare a giro con due amici umani del genere è assolutamente necessario: se uno, infatti, ha costantemente la testa all'insù, l'altro è una specie di esperto - o comunque conoscitore- di ogni lingua e linguaggio esistente. E poiché, molto spesso, le lapidi sono redatte in latino, costui deve regolarmente improvvisarsi traduttore.

Qualche giorno fa, stavamo passeggiando per una via dell'Oltrefiume (lo chiamo così, perché se dicessi il nome del fiume capireste subito in quale città siamo), quando abbiamo visto questa lapide, assai curiosa. In latino, sì, ma con due righe redatte in un bizzarro alfabeto; al mio amico è bastata un'occhiata per sentenziare che era ebraico. "Una cosa assai strana", ha detto, "perché qui siamo ben al di fuori dell'attuale quartiere ebraico, ed anche dal vecchio ghetto abbattuto con il 'risanamento' dei tempi della Capitale". Poi, piano piano, con la traduzione improvvisata, è apparsa chiara la particolare storia di questa lapide, e anche dell'edificio sul quale è sistemata.

Bisogna quindi tornare indietro all'anno del Signore 1627 (MDCXXVII), quando gli allora granduchi di Toscana, la real coppia formata da Ferdinando II de' Medici e Maria Maddalena d'Austria, decisero di istituire un monastero di suore francescane, dedicato a Sant'Elisabetta delle Convertite. Ma non un normale monastero ove le pie donne (ma pie pie pie!) si rinchiudessero in santa preghiera e a lavorar di pizzo, di gale e di trine come ne' beghinaggi delle Fiandre: costoro avevano invece il compito preciso di accogliere ragazze un po' meno pie, che svolgevano, come dire, tutt'altro tipo di lavoro. Per farla breve, il monastero nacque con il proposito di riportare ad una santa vita cristiana le prostitute del quartiere. Le quali non dovevano essere pochine.

Sarà forse facile ironizzare su questa cosa; ma bisogna anche -come diceva stavolta il Biribissi- tenerne conto di un'altra. Queste ragazze, che adempivano ad un compito primario -anzi, meglio, ad un valore, come ben si evince dal comportamento del nostro piìssimo attuale primo ministro tutto famiglia e moralità-, una volta passati gli anni e dopo avere incassato dosi massicce di disprezzo ed emarginazione durante il giorno, nonché di appuntamenti nascosti prezzolati la notte, spesso e volentieri in compagnia degli stessi gentiluomini che col sole le additavano alla pubblica riprovazione, si ritrovavano letteralmente nel baratro. Un'istituzione come quella provvedeva a dar loro un tetto e da mangiare; fermo restando che, dopo una vita passata a soddisfare le luride voglie della gente perbene, per quelle donne un bel po' di castità e di tranquillità non doveva pesare affatto. E neppure ritirarsi un po' da un mondo che era di merda ora come allora.

Ed è questo il senso della lapide, che così recita

FERDINANDVS II MAG(NVS) D(VX) ÆTRUR(IÆ) ET
MARIA MAGDALENA MATER ARCHID(VCIS)
AUST(RIÆ) HVIVS ÆDIFICII OPVS PIO ÆRE
PERFECERV(N)T VT AVRV(M) HOSTIS CASTI
TATIS CVSTOS EVADERET PVDICITIÆ
LAHABETIEL 'ESHU TESER MA'ALET RUMMUTH
RUZNINUNEGER HITESER
AMORE DIVINO INFLAMMATI SERENIS(SIMI)
PRINCIPES NO(ST)RI PRÆBVERE EXEM
PLVM MAGNÆ HONESTATIS CON
TRA MAXIMAM INHONESTATEM
A.D. MDCXXVII


Ovverossia: "Ferdinando II, granduca di Toscana, e Maria Maddalena, madre del Granduca d'Austria, hanno compiuto l'opera pia di costruire quest'edificio, affinché esso, custodendo la castità, serva a far evitare con pudore il nemico rappresentato dall'oro. Hanno agito con gentilezza per amore di Dio, e con gentilezza i nostri Signori sono ascesi alla supremazia. Infiammati dall'amore di Dio, i nostri serenissimi Prìncipi hanno dato un esempio di grande onorabilità contro il più grande dei disonori. Nell'anno del Signore 1627."

Strana cosa, vero? Inattuale. Si preoccupavano persino, questi antichi Principes, che delle prostitute, delle reiette, potessero avere un posto dove vivere il resto della loro vita con un po' di pace. Non è neppure da scartare che qualche membro della real casa, poi poi, si fosse ampiamente servito di qualcuna di loro, quand'erano ancora ne' verdi anni. Curioso, ma nemmeno troppo, che poco più d'un secolo dopo la casata de' Medici si estinguesse nella rovina fisica di Giangastone, una specie di enorme bozzolo di due quintali, bulimico, immobilizzato a letto, impotente e ributtante. Qualcosa che si è perpetuato nella memoria fino al giorno d'oggi: ancora adesso, per definire un ragazzo o un uomo alto, grosso e grasso, si dice in questa città che è un giangastrone. Con una "r" infilatasi là in mezzo, probabilmente per assonanza con il gastro- di "pancia" e del mangiare smodato.

Cose d'altri tempi. Un mondo che non c'è più. Le prostitute, in quel quartiere, ci sono però ancora. Se a qualche campanello si vede il cognome "Rossi", potete star sicuri che si tratta di una qualche ragazza nigeriana, o rumena, o moldava, o di chissà dove, che offre i suoi servigi ai soliti clienti, sovente rispettabili. Senza peraltro che ci sia nemmen più un Granduca o una Granduchessa che offra loro riparo e assistenza.

E così termina questa storia, probabilmente senza costrutto e, più che altro, senza nessuna morale. Una capatina nel passato. E forse anche nell'immaginazione. Del resto, dovete sapere che la strada in cui questa lapide si trova, al numero 45, si chiama via del Campuccio. Vi ricorda niente? A me sì. Mi ricorda un'altra strada dove c'era una graziosa, e dove dal letame nascevano i fiori. Mi ricorda che, forse, potrebbe essere andata a finire là dentro, a pregare Dio per una minestra ed un letto, a sentir messe tridentine e a pensare, chissà, d'avere amato qualcuno, un tempo.