Negli ultimi giorni, questa città è stata
scossa da una questione altamente drammatica e combattuta a colpi di
Facebook e di servizi telegiornalistici. Ne è nata una
querelle (non di Brest, con buonapace del defunto Faßbinder...) che potrebbe definirsi davvero come
segno dei tempi; e sono, invero, tempi che riescono al tempo stesso ad essere tragici e comici. Ah, già, dimenticavo: per tutto questo esiste l'aggettivo
tragicomico. Pardon.
Riassumo in breve la questione. Il
sindaco, o
primo cittadino (un giovanotto dalla faccia da mangiatore di Kinder Pinguì, esperto in bellezze e rottamazioni) ha, dalla sua pagina
Facebook, attaccato con alcune considerazioni un noto
giornalista televisivo, il quale svolge attualmente la mansione di direttore di una cosa chiamata "TG1". Servendosi della sua posizione, il vindice giornalista in questione ha fatto mandare in onda un
reportage su questa città, nella quale essa è dipinta a tinte decisamente fosche. Naturalmente, e sottolineo
naturalmente, l'argomento principe è il famoso
degrado; e poiché prima parlavo di questi tragicomici tempi, debbo altresì dire che l'ossessione (del tutto artificiale, preconfezionata, inculcata) del
degrado è uno dei suoi aspetti simultaneamente più tragicomici e pericolosi.
La
querelle si è allargata: non soltanto si è avuta la piccata risposta del Sindaco (che ha, senza mezzi termini, accusato il giornalista
degradatore di aver degradato la sua professione -opinione peraltro largamente condivisibile), ma la stampa cittadina ed alcuni suoi esponenti politici hanno avuto da dir la loro, ed in termini generalmente non lusinghieri verso il giornalista. Persino un consigliere comunale dell'opposizione si è inalberato, spedendo all'edizione
online di un grosso quotidiano un'
accorata lettera. Insomma, la si potrebbe chiamare una vera e propria
Degradèide: la città degradata, il giornalismo degradato, tonnellate di degrado, overdosi di degrado, accoramenti di degrado, deliri di degrado.
Il problema è che, oramai, 'sto
degrado nessuno più sa in che cosa esattamente consista; sta diventando, in pratica, una parola
desemantizzata. Il suo uso è divenuto talmente vuoto, irreale e specioso (destino comune alla maggior parte delle parole imposte dal mix di politicantume, gazzettieraggio e culturicchiame
à la Zephyrelli) da renderla tanto più vuota di senso, quanto più essa è usata in quantità abnorme. Oramai anche il bambino che si accorge di uno sbaffo di cacca lasciato dal suo compagno nel bagno della scuola, corre immediatamente a urlare:
Signor direttore! I bagni del primo piano sono in preda al degrado! Come è successo alla parola
cazzo, prima o poi la desemantizzazione si compierà del tutto trasformandola in un
pronome interrogativo:
cazzo vuoi? non so che cazzo fare. Di quest'andazzo si dirà, un giorno:
degrado vuoi? non ho saputo che degrado fare. Il pericolo estremo della desemantizzazione è la perdita di vista di quel che sia il vero
degrado operato congiuntamente da tutti coloro che, ora, si sfidano a plural tenzone dalle loro pagine Facebook, dai loro giornali e telegiornali, dai loro scranni consiliari, dalle loro tanto beneamate
istituzioni. E questo non è un degrado desemantizzato. Tutt'altro. Sarebbe anzi, il degrado più facilmente visibile se i cervelli e le coscieenze non fossero oramai poco appetibili
optionals, e se la capacità di osservazione critica non fosse da un lato atrofizzata, e dall'altro conculcata e repressa negli scarsi casi in cui ancora viene esplicata con responsabilità.
Per
degrado viene attualmente fatta passare tutta una serie di cose contraddistinte però da un minimo comun denominatore:
la più vuota esteriorità asservita agli interessi e alle manovre del Padrone. Farò un esempio classico. In questa città è stata montata, da anni oramai, una campagna mediatica e politica sul
degrado di un quartiere centrale,
San Lorenzo. A sentirli, coi loro giornali, i loro
rappresentanti e i loro misteriosi
comitati, magari con il decisivo concorso del solito
parroco strombazzato (e strombazzante, anche se -almeno si spera-, non nel senso del suo collega don Cantini), tale quartiere centrale dovrebbe essere oramai una specie di inferno in terra: tutta colpa, ovviamente, di
kebabbari, abusivi, minimarket pakistani, "microdelinquenza" eccetera.
L'intento è chiarissimo: una volta "liberato" il quartiere, uno dei pochi rimasti vivi nel centro storico, via libera alla creazione del
salottino.
In questa città tutto dovrebbe essere un salottino ad uso dei
turisti e dei
bottegai pataccari per i quali, a suo tempo, non è stata fatta tanta cagnara quando hanno fatto progressivamente sloggiare tutte le attività artigianali che costituivano la vera ricchezza di questa città. Bottegai pataccari, strade "ripulite" dagli intrusi, razzismo neanche più tanto strisciante, interessi altolocati, riduzione della città a una Disneyland quasi più finta di quella originale. Speculazioni immobiliari, banche e banchette, assicurazioni, affitti improponibili, espulsione degli abitanti; i quali, poveri loro, non di rado si prestano ad una manovra che ricadrà principalmente sulle loro teste. Tutto questo è lo scopo ultimo dei
"crociati del degrado". Una cosa, del resto, già ampiamente vista in questa città.
La foto che vedete, risalente a circa il
1885, ritrae l'antico
Mercato Vecchio; e dovrei far presente a questo punto che il quartiere di San Lorenzo ospita ancora oggi sia il Mercato Centrale, sia quello delle bancarelle. E gli abusivi, i venditori, i
microcriminali e tutto il resto. Esattamente come il Mercato Vecchio, che tra il 1885 e il 1895 fu
fatto demolire assieme a tutto il suo quartiere, che era allora il
ghetto ebraico. Scomparve quello che era, probabilmente, il nucleo primevo di questa città: i suoi vicoli, le sue piazzette, le sue case, le sue torri, le sue mille botteghe, il suo mercato. Allora come ora, cominciarono coi loro giornali (e
La Nazione esisteva già...), le loro campagne, i loro politici; il
centro degradato (parole testuali di quell'epoca) doveva essere "ripulito". Alla campagna seguirono gli espropri e le espulsioni; poi seguirono i picconi. Ai picconi, poi, seguì la costruzione del
"salotto":
Eccolo qua, in una foto del 1938; e sarebbe bene per tutti andare a fare un giretto sul meraviglioso sito dell'
Archivio Storico cittadino, dal quale provengono le foto sopra. Documenti e immagini che raccontano storie e Storia, e che mettono in risalto ciò che è cambiato e ciò che, di solito disperatamente, è rimasto identico. Identica, ad esempio, è rimasta l'esigenza prevaricatrice e distruttrice della classe borghese. Allora sventrava e costruiva orrori come quello sopra, dedicandoli ai suoi
re e poi alla
Repubblica una volta mutato il vento; oggi non sventra più, ma
salottizza. Per il resto, le tattiche e gli scopi sono i medesimi: avere nei centri storici delle
classi popolari non è ammesso. Ancor di più oggi, in cui tali classi sono costituite in gran parte da immigrati. Tirano in ballo la
tradizione cittadina, battono i loro tamburi, mettono all'opera il loro immondo circuito politico-mediatico trasversale, e distruggono. Spostano. Le classi popolari ghettizzate nelle periferie più lontane, e il centro in balia di banche, turisti,
localini più o meno
trendy, cazzottatoi per pallonieri, vippame & stilistame, e tutto il resto. Il bello gli è che, poi, fanno pure i piagnistei quando chiude un
negozio storico; proprio loro, che da duecento anni a questa parte hanno letteralmente
annientato quella che veramente era la storia sociale di questa e di tutte le altre città.
Coi loro servi e con la loro polizia.
Il
degrado, quello vero, sono loro. Coi loro
decori di cartapesta, con le loro
lamentele, con le loro
paure e
terrori. Piazze svuotate. Militarizzazioni. Telecamere. Le chiamano, pensate un po',
"telecamere amiche". Sarebbe bene ricordarsi, una volta per tutta, che queste telecamere
spiano tutto, e coi terminali in Questura o al comando della Polizia Municipale. E chi ti spia non ti è mai "amico". Chi ti spia ti controlla, in ogni tuo movimento. Chi ti spia è pronto a saltarti addosso e a portarti via. E ne installano sempre di nuove, sempre di nuove. Puoi uscire di casa per i fatti tuoi, e loro sanno tutto ciò che fai. Dicono che è per la
sicurezza e per la
prevenzione, ma tutto ciò ha sempre un solo nome: si chiama
repressione.
E, allora, sta pure bene che si scannino un po' fra loro, col loro
Sindaco del bello da una parte e coi loro pennaioli dall'altra. Coi loro
consiglieri, con il servo televisionaro, con i loro
degradi incrociati e con tutto il resto. Il loro fine è però lo stesso. Lo si potrebbe chiamare
policidio. Nel senso proprio del termine. La città come espressione di attività e di scontro sociale, la città come πόλις, la città come lavoro, la città come contraddizione, e in breve la città come vera città, fa loro paura. La devono involgarire e musealizzare. La devono
abbellire con gli strass dei loro decori e delle loro pulizie, ma una città vera è sempre sporca e puzza. La devono imbalsamare e annichilire, e questo dovrebbe essere impedito a tutti i costi. Si scannino quindi pure, e s'indignino, scrivano le letterine, postino commenti sulle loro paginette dell'Autoschedatura Planetaria. Ancora c'è chi lotta e chi non cede, e non cederà mai, e si riprenderà la Città.
Nell'illustrazione in testa, un celeberrimo degrado: quello del capitano Dreyfus (5 gennaio 1895). La sua storia, credo, dovrebbe essere nota.